L'album parte bene con Hurts Like Heaven, forse non particolarmente originale ma di sicuro interpretata "a cuore aperto", travolgente e a suo modo ispirata. Purtroppo la quasi totalità del resto dell'album non si assesta in questi territori: i singoli Every Teardrop is a Waterfall e Paradise non mascherano affatto bene il malizioso inserimento dei famigerati coretti di vivalavidiana memoria - "uohoooooo!" - e più in generale mancano di profondità laddove suonano esageratamente plasticosi, iperprodotti e freddi all'inverosimile. L'impressione che Brian Eno stavolta abbia impacchettato e infiorettato fin troppo i brani diventa certezza con l'imbarazzante Princess of China, maldestro tentativo di infilare i Coldplay in una dimensione sintetica che, almeno stando a questo pezzo, non pare appartenergli, tanto banale e approssimativo è il risultato. Se poi si guarda alla parte vocale di questo duetto, Martin ne esce con le ossa frantumate, sfoderando la peggior cantilena della sua carriera e trascinando con sé Rihanna, che chi scrive francamente preferiva ai tempi di Umbrella.
Qualche brano interessante c'è: su tutti svetta Major Minus, dove gli intenti danzerecci sono interpretati à la U2 - quelli di Pop - e finalmente convincono, ma è curioso osservare come i momenti più riusciti, in questo magma di plastica, siano quelli acustici. Us Against the World e U.F.O. vedono infatti un Martin molto più a suo agio nel suo ruolo, stavolta smarcato dall'esigenza di piegare la sua voce al servizio del tormentone di turno.
Quindi davvero un peccato che Mylo Xyloto abbia preso questa piega, perché i Coldplay avrebbero ancora, agli occhi di chi scrive, i mezzi per regalarci ottimo pop, oltre che pezzi da classifica, ma evidentemente la loro sufficienza e la loro pigrizia non glielo permettono. Continueranno a lungo a vendere milioni di dischi - cosa che gli auguriamo - ma una sufficienza, se perseverano nel peccare di mancanza di cuore, non gliela daremo più.
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