In molte parti del mondo, la parola "donna" è ancora sinonimo di "ingiustizia, violenza, diritti negati". Se noi italiane stiamo cercando di far capire dagli uomini che "oltre le gambe c'è di più", in altri paesi del mondo altre donne stanno lottando per raggiungere quelle libertà che noi occidentali diamo ormai per scontate.
È di poche settimane fa la notizia che, in Arabia Saudita , le donne potranno finalmente entrare a far parte della Shura (il consiglio consultivo), potranno candidarsi alle elezioni municipali che seguiranno quelle del 29 settembre, per loro ancora vietate, ed esercitare quindi regolarmente il loro diritto di voto. Il re Abdullah ha mandato sicuramente un messaggio forte, che si carica ancor più di significato se si considera che l'Arabia Saudita è uno dei tanti paesi in cui le donne non possono viaggiare, lavorare, subire interventi medici senza il permesso di un uomo della propria famiglia.
E non possono neanche guidare.
Proprio a questo proposito lo scorso giugno si è svolta la "Giornata contro il divieto di guidare": pochi minuti dopo la mezzanotte del 17 , giovani donne hanno attraversato le città saudite a bordo delle loro auto, mentre venivano filmate da amiche (e amici) che avrebbero poi caricato tutto sul web. In Arabia il divieto per le donne di guidare è una proibizione più sociale che legale; vi è solo un editto non vincolante, emanato dopo che nel 1990 un gruppo di 47 donne sfidò il bando imposto da religiosi e iperconservatori, sfilando in un corteo di auto per il centro della capitare. Seguendo il loro esempio, le attiviste del movimento Women to Drive hanno ripreso le redini della protesta che, grazie all'apporto dei social network, ha avuto risonanza mondiale.
Non sono mancati anche uomini che, in sostegno della protesta, si son vestiti da donne.
Intanto, dall'altra parte del mondo, altre donne e altri uomini si trovano a dover lottare per difendere il diritto ad avere una famiglia. In Cina vige ancora quella che è passata alla storia come la "Legge del figlio unico", emanata negli anni Settanta, che impedisce alle faniglie di avere più di un figlio (meglio se maschio). La Women's Rights without Frontiers ha da poco denunciato 13 casi di interruzione di gravidanza: aborti forzati all'ottavo mese e mezzo, sterilizzazioni, inserimenti di strumenti di contraccezione intrauterina. Per le famiglie colpevoli di aver avuto un figlio in più vi sono multe enormi, fino ad arrivare alla demolizione della casa, detenzione e tortura. Quattrocentomilioni sono i casi noti di interruzione di gravidanza, e altrettante sono le mamme che hanno rischiato la vita: per la legge italiana l'aborto è consentito nei primi 90 giorni di gestazione, norma che vige anche in altri Paesi, per difendere la salute della mamma.
Il rapporto presentato dalla presidentessa dell'associazione, Reggie Littlejohn, davanti alla Commissione per gli Affari Esteri ed i Diritti Umani, racconta storie di donne che sono arrivate al suicidio, dopo essere state rapite, svestite, bloccate in camere operatorie e sterilizzate.
"In Cina – dice la Littlejohn - il corpo di una donna non appartiene a lei. Appartiene allo Stato. L'utero di una donna e la parte più intima del suo corpo, dal punto di vista fisico, emozionale e spirituale. Per questo il Partito Comunista Cinese, agendo come "polizia dell'utero", distrugge la vita all'interno di lei. E questo è un odioso crimine contro l'umanità".
Il nostro viaggio intorno al mondo ci porta infine nello studio fotografico di una delle maggiori riviste di moda. C'è una modella, seduta su una poltrola: abito da sera, gambe nude, tacchi alti, trucco intenso, sguardo malizioso. Questa modella ha nove anni.
Davanti a tante donne che lottano ogni giorno per acquisire diritti civili, e per divendere il diritto alla vita per i propri figli, ci sono altrettanti genitori che invece preferiscono vedere le proprie bambine sulle pagine dei giornali, riducendole a bambole di seta.
Mariafrancesca Guadalupi
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