Sono passati due anni dalla morte di Stefano Cucchi, il giovane geometra morto in carcere cadendo dalle scale. Una caduta di quelle brutte, che gli procura echimosi alle gambe, al viso (inclusa la rottura della mascella), all’addome (inclusa un’emorragia alla vescica) e al torace (incluse due fratture alla colonna vertebrale). Una caduta che lo spaventa così tanto da portarlo a non accettare il ricovero al Fatebenefratelli, e che addirittura lo fa dimagrire di 6 chili nel giro di una decina di giorni.
Ma Stefano non è purtroppo il solo sfortunato. Accanto a lui compaiono altri nomi.
C’è Marcello Lonzi, 29enne morto in carcere nel 2003, che ha una mamma, Maria Ciuffi, che ha scritto al ministro della Giustizia Alfano, chiedendo disperatamente di avere quelle risposte che attende da anni.
C’è Aldo Bianzino, falegname di 44 anni, entrato in carcere il 12 dicembre 2007 in buone condizioni fisiche ed uscitone cadavere due giorni dopo.
C’è Carmelo Castro, 19enne che si sarebbe impiccato in un letto che non raggiunge i suoi 170 cm di altezza.
E c’è Filippo Aldrovandi. Ma questa volta la caduta non è per le scale di un carcere: Filippo inciampa per strada, alle 6 del mattino, mentre tornava a casa da solo, incensurato e disarmato, e l’unica colpa che aveva era, forse, quella di “camminare in modo strano, forse cantando”, come dirà la donna che chiama preoccupata la volante. Quella stessa volante che solo alle 11 del mattino, dopo aver bloccato per cinque ore la strada dove Filippo era inciampato, si reca a casa Aldrovandi: viene detto che il giovane, incespicando su quel maledetto scalino del marciapiede, ha sbattuto la testa contro il muro.
Che strano, però, che su quel muro non siano state trovare tracce di sangue..
A questi si devono aggiungere tanti altri nomi: nomi di mamme e sorelle che pregano quella Giustizia che, non solo le ha private dei loro ragazzi, ma anche della possibilità di sapere perché sono morti. Si devono aggiungere i nomi di tutte quelle 150 persone che sono morte in carcere dal 2011 a causa di suicidi (circa un terzo del totale), assistenza sanitaria insufficiente, overdose o per “cause non chiare”.
L’Italia ha abolito la pena di morte il 25 ottobre 1994. Ma forse la notizia non è ancora arrivata a tutti.
Di carcere si muore.
Si muore nel corpo. Si muore nello spirito, quando si passano le notti dormendo sul materasso buttato sul lercio pavimento di una cella che dovrebbe ospitare solo due persone, e invece offre forzatamente alloggio a tre; oppure quando si ha fame, perché la mensa non riesce a saziare tutti, e gli alimenti hanno dei prezzi proibitivi.
Di carcere si muore quando i detenuti arrivano ad invidiare gli animali, che hanno delle leggi a loro difesa.
Mariafrancesca Guadalupi
"Quì Regina Coeli"
perstefanocucchi.blogspot.com
radiocarcere.com
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